Provano a vendere rose, biglietti della lotteria o gomme da masticare.
Se non ci riescono mendicano. Se non ottengono nulla neanche in questo
modo si prostituiscono. «Sono di Aleppo, dammi qualcosa per mangiare,
che Dio di benedica». Dicono così, tutti, indipendentemente dal vero
luogo d’origine. Sono i bambini siriani di Hamra street, il trafficato
viale commerciale di Beirut. Sono soli, sporchi, denutriti e in pochi
hanno le mamme che li attendono in qualche angolo della strada, o sotto
il ponte della stazione degli autobus, a Cola o a Chalrles Helu. Si
vendono per cinque o dieci euro, 10 o 20mila lire libanesi, il
corrispettivo di qualche bottiglia d’acqua e un paio di panini. Si
propongono agli automobilisti, uomini, bussando ai vetri delle macchine:
«Se vuoi salgo e ti do un bacio», dicono facendo un piccolo inchino. Sono
tanti anche sulla strada principale che costeggia il lungomare di
Beirut, la Corniche. Nonostante il fenomeno consistente, però, questi
bimbi non li censisce nessuno. Non sono dentro quella soglia del milione
di piccoli profughi siriani denunciata ieri dall’Alto commissariato Onu
per i rifugiati (Acnur), e non rientrano neanche nei programmi di aiuto
delle grandi Ong internazionali che su Hamra street hanno le loro
prestigiose sedi. In base ai dati forniti dall’agenzia Onu, i
bambini costituiscono la metà dei due milioni di profughi provocati dal
conflitto in Siria. Una guerra che ha prodotto quattro milioni di
sfollati interni, di cui la metà sono minori e oltre 100.000 vittime,
tra queste 7.000 sono bambini. Ecco perché per sopravvivere è meglio
fuggire, magari in Libano, Giordania, Turchia, Iraq, Egitto e chi può
affronta il mare per raggiungere un sogno chiamato Europa. I bambini
siriani sono tantissimi: questo è infatti un Paese con una popolazione
giovane e un tasso di fertilità molto alto. Così si capisce come mai più
del 70 per cento dei bimbi registrati dall’Onu (esattamente 740mila) ha
meno di 11 anni. La maggior parte dei piccoli si trova in Libano dove
non sono stati autorizzati i campi profughi e parallelamente all’aiuto
delle Ong si insinuano con troppa facilità finte organizzazioni
caritatevoli con scopi politici, guerrafondai o lucrativi. Cosa
che però accade anche negli scenari organizzati in modo più efficiente,
come nel campo di Zaatari in Giordania, che accoglie oltre 120.000
profughi. Freddissimo d’inverno e caldo infernale d’estate,
l’agglomerato sorge in una delle zone desertiche più inospitali del
Medio Oriente. L’Acnur registra i profughi, fornisce loro servizi di
base. Cibo, cure mediche primarie, vaccini, ostetricia per le tante
gestanti. Ma per il resto la gente vive tra miseria e disoccupazione. Le
famiglie si arrangiano come possono e le figlie adolescenti sono i
primi “pesi” di cui ci si prova a liberare. Magari affidandole a
un’agenzia matrimoniale che arrangia unioni “benedette da imam locali”
con uomini stranieri. E guai a chiamarla prostituzione, perché il tutto
avviene alla luce del sole, come ha affermato spesso Zayed Hamad, il
direttore dell’associazione islamica Kitab al-Sunna che, tra le tante
attività caritatevoli, organizza anche i matrimoni. Il sitema è
semplicissimo e a innescarlo sono stati i molti predicatori televisivi
che hanno esortato i buoni musulmani facoltosi ad aiutare le donne
siriane, soprattutto le vedove dei combattenti. Poi però, invece di
sposare una vedova, con tanto di prole, gli uomini (per lo più sauditi)
chiamano la Kitab al-Sunna in cerca di minorenni, ovviamente vergini,
possibilmente con la carnagione chiara e gli occhi azzurri.
L’appuntamento costa 70 dollari, se il matrimonio viene contratto
l’associazione ne prende 300. Le famiglie numerose chiedono in cambio
cifre che vanno dai due ai tremila dollari. Spesso i matrimoni tra la
quindicenne e il sessantenne si riducono a una settimana in albergo
consumata nella stessa Amman, da cui il marito di turno se ne torna
direttamente a casa senza la nuova moglie. Con la stessa rapidità con
cui la sposa, infatti, il “generoso signore” ottiene il divorzio.
Susan Dabbous
Avvenire
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