di Marco Antonini
Alfredo Macchi è inviato per le testate
Mediaset ed è stato in molte zone di guerra, dal Kosovo all'Afghansitan, dal
Libano all'Iraq, dalla Palestrina al Pakistan. Ha seguito per Tg5, Tg4, Studio
Aperto e Tgcom24 le rivolte della Primavera Araba in Tunisia, Egitto e Libia.
Allievo della scuola di giornalismo De Martino di Milano ha vinto
numerosi premi, tra cui il Premio Ilaria Alpi, il Premio Marco Luchetta e
quello in memoria di Enzo Baldoni.
Da
almeno 20 giorni non si hanno notizie in Siria di Domenico Quirico, inviato
speciale de “La Stampa”. Ci sono aggiornamenti?
Nel suo ultimo contatto con l’Italia Domenico ha fatto sapere che
si stava dirigendo verso Homs dopo essere entrato in Siria dal Libano. In
quelle zone capita di restare qualche giorno
in silenzio perché le comunicazioni sono difficilissime. Considerato il tempo
trascorso però è probabile che sia stato sequestrato da qualcuno. L’inviato
della Stampa è un veterano, ha seguito diversi conflitti e sa come comportarsi
in queste situazioni. E’ alla sua quarta trasferta in Siria per raccontare con
i suoi occhi una guerra che va avanti da due anni nel disinteresse
dell’Occidente. Le condizioni di sicurezza per i reporter sono difficilissime. In
guerra non ci sono regole e comanda chi ha un’arma in mano. Spesso non ti puoi
fidare di nessuno, anche dei tuoi accompagnatori. Anche io mesi fa mi ero organizzato
per entrare in Siria dalla Turchia, nascosto sotto il sedile di un auto guidata
dai ribelli, ma poi con il mio direttore Mario Giordano abbiamo convenuto che
in quel momento era troppo pericoloso. In Siria ci sono alcuni giornalisti dispersi
da mesi. Una trentina quelli che vi hanno perso la vita.
Cosa sta succedendo in quella terra così bella?
E’ un paese bellissimo e dalla grande tradizione di civiltà, una
terra dove hanno convissuto per secoli etnie diverse etnie e religioni diverse. Dopo la sollevazione popolare e la
dura repressione del Regime il paese è precipitato nella guerra civile ed è in
ginocchio. Ci sono bande armate organizzate dal regime che non hanno rispetto
per nulla e per nessuno. L’esercito regolare usa gli aerei per bombardare
interi quartieri. Ci sono gruppi ribelli di ogni genere che agiscono sotto comandi
diversi, tra cui anche estremisti islamici, che vorrebbero imporre un sultanato
islamico. Ci sono combattenti che arrivano dal Libano, dall’Iraq, dalla Libia. E
poi ci sono gruppi di delinquenti che come in ogni guerra non si fanno problemi
a rapire o ad ammazzare per pochi dollari.
Sei da anni, per diverse testate Mediaset, inviato di guerra. Com’è cambiato il lavoro negli ultimi tempi e perché è sempre più difficile raccontare storie dall’estero?
Ho seguito quasi tutti i conflitti dell’ultimo decennio, Kosovo,
Afghanistan, Libano, Palestina, Iraq e le rivolte della cosiddetta Primavera
Araba in Tunisia, Egitto e Libia. Una volta i giornalisti mostravano la scritta
Press sul giubbetto antiproiettile o sulla macchina per non essere colpiti.
Oggi è spesso meglio non far sapere che sei un reporter perché i giornalisti
sono diventati un obiettivo. Da eliminare o da rapire. Perché nell’epoca del
web 2.0 le varie parti in conflitto preferiscono raccontare direttamente loro
la guerra, con video amatoriali che è difficile verificare. I giornalisti danno
fastidio, con le loro domande scomode e con la loro testimonianza diretta. Inoltre
andare in zone di guerra è un costo per gli editori: assicurazione, auto, spese
di vitto e alloggio, anche se spesso molto frugali. Così molti giornali colpiti
dalla crisi hanno tagliato prima di tutto gli inviati. Penso che sia un errore
perché la differenza, nel mare di notizie tutte eguali, la fa solo chi va sul
posto.
Quali
sono i “campi di guerra” dimenticati?
Tantissimi: il conflitto in Siria ha causato fin’ora oltre
centomila morti ma sui giornali italiani e nei tg appare sporadicamente. I
nostri telegiornali e i nostri quotidiani hanno pagine e pagine sulle dichiarazioni
dei politici e pochissimo spazio per le grandi questioni del mondo. Il nostro
paese è piuttosto provinciale da questo punto di vista. Poi c’è l’Iraq dove
nello scorso mese di aprile ci sono stati 700 morti. Ma oramai si parla sempre
meno anche dell’Afghanistan dove sono impegnati i nostri soldati. E poi
l’Africa, di continuo insanguinata, dal Darfur al Congo, dal Sud Sudan alla
Somalia.
Come
è il lavoro di un giornalista – inviato di guerra?
Molto faticoso e sempre di corsa, soprattutto per gli inviati
della tv. Oggi appena sbarchi all’aeroporto ti viene già chiesto di mandare il
primo reportage. Devi realizzare servizi, collegamenti telefonici, mandare sms,
scrivere tweet, scattare foto… Spesso in redazione non capiscono che ci vuole
tempo per muoversi in sicurezza e per capire un paese. Molti giornalisti tendono
a muoversi in gruppo, stanno quasi sempre negli stessi grandi alberghi oppure
seguono i militari embedded. Domenico Quirico è di un genere differente: preferisce
muoversi da solo, stare in contatto con
la popolazione locale, andare a cercare storie che altri non hanno. Come faccio
io quando posso. Questo comporta rischi e sacrifici: spesso si dorme per terra
e poco, non si mangia per ore, si patisce caldo e fatica.
Sono
molti a criticare la presenza di inviati speciali troppo esposti nelle zone
calde del pianeta. Perché è così importante la loro presenza?
Le guerre sono le azioni più terribili che l’uomo possa compiere.
Nei conflitti vi sono atti terribili ma anche gesti di altruismo. Il
giornalista deve raccontarli. Non per quello che accade sul campo, che ci viene
enunciato dagli addetti stampa militari, ma per dare voce alle vere vittime che
sono sempre le popolazioni civili. Sono loro a subire deportazioni, violenze,
torture, stupri. Se non ci fossero testimoni, come sta accadendo in Siria, le violazioni
dei diritti umani e dei crimini di guerra sarebbero ancora più frequenti.
Di
quale corrispondenza sei più orgoglioso? Perché? Cosa ti ha insegnato?
L’Afghanistan nel 2001. Era la mia prima guerra vera e sono stato
il primo giornalista di una tv italiana ad entrare a Kabul mentre i talebani
abbandonavano la città. E’ stata un’esperienza incredibile: ero al centro della
storia. Ma anche molto dolorosa perché
una parte del viaggio, fino a Jalalabad, l’avevo fatta con Maria Grazia Cutuli
del Corriere. E lei non è più arrivata a Kabul. Sul momento mi sono detto “mai
più in zona di guerra”. Ci sono rimasto due mesi a Kabul e ci sono tornato
tante altre volte. Proprio perché lo devo a quelle popolazioni che soffrono le
conseguenze della guerra.
Radio
Gold Fabriano è una radio attenta al territorio ma guarda con
attenzione anche ai grandi eventi nazionali e internazionali grazie al Giornale
Orario e a questo Blog. Non avendo share da garantire agli inserzionisti
pubblicitari o grandi mezzi tecnici come il tuo editore, come potrebbe
diventare innovativa in campo giornalistico?
Capisco le difficoltà dei piccoli ma sempre di più oggi non
servono i grandi mezzi che una volta avevano solo pochi editori. Il web ti
permettere di raggiungere chiunque con spese contenute. Per emergere tra i
tanti bisogna avere idee innovative e trovare storie che gli altri non hanno.
Serve un giornalismo di qualità e serio, fatto di faticoso lavoro sul campo e
un po’ controcorrente. Possibilmente condiviso con i propri lettori o
ascoltatori: aprire le proprie inchieste per esempio sui social network permette
di raccogliere il contributo di tantissimi ed arrivare a scoprire cose che un
giornalista da solo non potrebbe mai. E soprattutto consente di crearsi un bacino
di persone che, se non tradisci la loro fiducia, ti seguiranno.
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