Forse solo la poesia può
cristallizzare la fine, rendere vivo chi non c’è più, creare un monumento
invisibile, un simulacro di parole, un’icona di versi. Trasformare un uomo,
appunto, in un vivo tra i vivi. Perché la poesia annulla le distanze e le
barriere temporali e spaziali. Il fuoco del ricordo anima l’individuo che ci ha
lasciati, l’“accende di futuro”. Penso a questo mentre scrivo alla direttrice
Gigliola Marinelli, perché il dolore per la scomparsa di un padre “mitico” non
solo per la sua famiglia, ma anche per la città, si possa lenire nell’immenso
di un amore che non viene meno, ma che anzi si accentua con l’interruzione dei
giorni terreni. Nelle sue lettere datate 1962, Hermann Hesse scrive: “Il
richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce se le
facciamo buon viso, se l’accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore
e della trasformazione”. La morte delle persone che ci stanno accanto ci riguarda
più della nostra, disse una volta Giovanni Soriano, l’autore dello splendido
volume “Maldetti. Pensieri in soluzione acida”. Il vuoto, la perdita,
l’assenza, come ho scritto più volte, sono archetipi dell’esistenza di ognuno
di noi, quindi della letteratura, capace di far “resuscitare” chiunque e di
farlo presenziare come fosse ancora in carne ed ossa. Al pari dell’amore, la
morte è un mutamento di tutto l’essere, ma niente viene prescritto, niente
scade. Anzi, chi muore lascia un testamento morale, lo stesso che Gigliola ha
scritto questa mattina su Facebook sintetizzando un sentimento filiale che la
sua natura conosce bene: dignità, grinta e determinazione. Valori che non si
commercializzano. Valori infiniti e indisponibili. Valori saldi. “Testa alta e schiena
dritta”, ecco il proposito che vale più di ogni materialità. Gigliola conserva
il carattere del padre, lo stesso temperamento, non solo lo stesso sangue. E
nel momento peggiore, è un’imperitura volontà che emerge da questo significato,
tutt’altro che un pianto sconfortato. “Che la terra ti sia lieve”, scrissi ad
un amico che mi lasciò lo scorso anno. Lo stesso volo alto lo prefiguro per il
papà della direttrice di Radio Gold. Una persona che non ho conosciuto, ma che
so che a Fabriano ha lasciato un segno specie come impeccabile professionista.
Le due mani si intrecciano: figlia e padre ancora uniti. La tua radio ti lascia
un poesia che corre sull’etere, che guarda lassù, cara Gigliola, con gli stessi
occhi di sempre. “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale /e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
/ Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né
più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni
di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. / Ho sceso milioni di
scale dandoti il braccio / non già perché con quattr’occhi si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
/ le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue” (Eugenio
Montale).
Alessandro Moscè
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