giovedì 6 giugno 2013

CARA GIGLIOLA TI SCRIVO... L'editoriale di Alessandro Moscè


Forse solo la poesia può cristallizzare la fine, rendere vivo chi non c’è più, creare un monumento invisibile, un simulacro di parole, un’icona di versi. Trasformare un uomo, appunto, in un vivo tra i vivi. Perché la poesia annulla le distanze e le barriere temporali e spaziali. Il fuoco del ricordo anima l’individuo che ci ha lasciati, l’“accende di futuro”. Penso a questo mentre scrivo alla direttrice Gigliola Marinelli, perché il dolore per la scomparsa di un padre “mitico” non solo per la sua famiglia, ma anche per la città, si possa lenire nell’immenso di un amore che non viene meno, ma che anzi si accentua con l’interruzione dei giorni terreni. Nelle sue lettere datate 1962, Hermann Hesse scrive: “Il richiamo della morte è anche un richiamo d’amore. La morte è dolce se le facciamo buon viso, se l’accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell’amore e della trasformazione”. La morte delle persone che ci stanno accanto ci riguarda più della nostra, disse una volta Giovanni Soriano, l’autore dello splendido volume “Maldetti. Pensieri in soluzione acida”. Il vuoto, la perdita, l’assenza, come ho scritto più volte, sono archetipi dell’esistenza di ognuno di noi, quindi della letteratura, capace di far “resuscitare” chiunque e di farlo presenziare come fosse ancora in carne ed ossa. Al pari dell’amore, la morte è un mutamento di tutto l’essere, ma niente viene prescritto, niente scade. Anzi, chi muore lascia un testamento morale, lo stesso che Gigliola ha scritto questa mattina su Facebook sintetizzando un sentimento filiale che la sua natura conosce bene: dignità, grinta e determinazione. Valori che non si commercializzano. Valori infiniti e indisponibili. Valori saldi. “Testa alta e schiena dritta”, ecco il proposito che vale più di ogni materialità. Gigliola conserva il carattere del padre, lo stesso temperamento, non solo lo stesso sangue. E nel momento peggiore, è un’imperitura volontà che emerge da questo significato, tutt’altro che un pianto sconfortato. “Che la terra ti sia lieve”, scrissi ad un amico che mi lasciò lo scorso anno. Lo stesso volo alto lo prefiguro per il papà della direttrice di Radio Gold. Una persona che non ho conosciuto, ma che so che a Fabriano ha lasciato un segno specie come impeccabile professionista. Le due mani si intrecciano: figlia e padre ancora uniti. La tua radio ti lascia un poesia che corre sull’etere, che guarda lassù, cara Gigliola, con gli stessi occhi di sempre. “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale /e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. / Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr’occhi si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue” (Eugenio Montale).

Alessandro Moscè

Nessun commento:

Posta un commento